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Regole in caso di sinistro stradale:

Cade davanti a casa perchè il cantiere non è interdetto alla circolazione: paga l’appaltatore ed il Comune

Cade davanti al portone di casa per via di alcuni lavori al manto stradale.

Il cantiere non è messo in sicurezza in quanto non è delimitato in modo tale da impedire la circolazione, quindi la responsabilità per omessa custodia grava anche sul Comune.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 9 maggio – 25 giugno 2013, n. 15882
Presidente Spirito – Relatore Cirillo

Svolgimento del processo

1. V..C. conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Perugia, il Comune di Todi e la società Colle di Todi a r.l. chiedendo che fossero condannati in solido a risarcirle i danni conseguenti ad una caduta verificatasi all’uscita della propria abitazione, sita a (OMISSIS) . Esponeva l’attrice che tale evento dannoso era stato determinato dall’esistenza di un dislivello venutosi a creare tra la porta della sua abitazione ed il fondo stradale, a causa di lavori di ristrutturazione eseguiti dalla società Colle di Todi che avevano comportato la rimozione della pavimentazione esistente.
Si costituivano entrambi i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda; il Comune di Todi chiedeva di poter chiamare in causa la Regione Umbria, la quale si costituiva eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva.
Il Tribunale, con sentenza del 12 dicembre 2002, accoglieva la domanda nei confronti del Comune di Todi e della società Colle di Todi a r.l., che condannava al pagamento della somma di Euro 33.707,22, riconoscendo un concorso di colpa della C. nella misura del 15 per cento.
2. Avverso tale pronuncia proponeva appello il Comune di Todi cui si affiancava quello della società Colle di Todi, mentre la Regione Umbria e V..C. chiedevano la conferma dell’impugnata sentenza.
La Corte d’appello di Perugia, con sentenza del 15 dicembre 2006, rigettava l’appello, confermava la sentenza impugnata e condannava il Comune di Todi al pagamento delle ulteriori spese del grado nei confronti della C. e della Regione Umbria.
Osservava la Corte territoriale, per quanto ancora interessa in questa sede, che il fatto che il Comune avesse affidato lo svolgimento dei lavori ad una società esterna non faceva venire meno il suo potere-dovere di vigilanza, che costituisce conseguenza del diritto di proprietà sul bene pubblico. Né risultava che l’affidamento dei lavori avesse determinato un qualche temporaneo affievolimento delle prerogative essenziali del diritto di proprietà.
La conservazione necessaria, in capo al Comune, dei poteri autoritativi sul bene – ivi compresi quelli di cui all’art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 – rendeva impossibile ipotizzare che fossero venuti meno gli obblighi di custodia; obblighi che, del resto, non possono essere dismessi “a piacimento”, sicché il sopravvenire di una concorrente responsabilità di altro soggetto “si somma ai doveri dell’ente senza eliderli in alcun modo”.
Quanto all’art. 2051 cod. civ., poi, la Corte perugina rilevava che il venire meno dell’obbligo di custodia potrebbe ipotizzarsi solo in presenza di beni pubblici che, a causa della loro estensione o configurazione, rendano in effetti impossibile un controllo; circostanza, questa, che non ricorreva nel caso di specie, perché i lavori di rifacimento della pavimentazione stradale riguardavano “luoghi estesi della città, ma determinati e non enormi”.
In riferimento all’attribuzione della responsabilità, in tutto o in parte, alla C. , il giudice d’appello poneva in evidenza che la ricostruzione del fatto induceva ad escludere che l’evento dannoso potesse essere ricondotto a responsabilità unica dell’appellata. Costei, infatti, settantanovenne all’epoca dei fatti, si era trovata a dover fare “una specie di salto in basso di circa 60 centimetri” senza alcun appoggio, anche perché il portone della sua abitazione era rimasto privo della necessaria passerella; sicché l’attribuzione a suo carico di un 15 per cento di responsabilità appariva addirittura criticabile per eccessiva severità.
3. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Perugia propone ricorso il Comune di Todi, con atto affidato a cinque motivi.
Resistono con separati controricorsi la società Colle di Todi e la Regione Umbria.
Il Comune di Todi e la società Colle di Todi hanno presentato memoria.

Motivi della decisione

1.1. Col primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omessa o insufficiente motivazione circa la natura, la tipologia, l’entità e l’estensione dei lavori relativi al Comune di Todi.
Rileva il ricorrente che era stata commissionata alla società cooperativa Colle di Todi l’esecuzione di una serie talmente imponente di lavori che si trattava della costruzione di una nuova opera e non della modifica di quella precedente, sicché non era ipotizzabile l’esistenza di un obbligo di custodia. A norma dell’art. 28 della Convenzione, infatti, il Comune di Todi si era spogliato della custodia, essendo la medesima affidata alla società appaltatrice dei lavori, la quale si era impegnata alla manutenzione fino alla formale consegna delle opere realizzate.
1.2. Premesso che la censura, posta in termini di vizio di motivazione, manca del necessario momento di sintesi trattandosi di ricorso soggetto, ratione temporis, alla disposizione di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ. – essa si risolve, in sostanza, in una critica all’operato della Corte d’appello in ordine all’interpretazione dell’art. 28 della convenzione intercorsa tra la Regione Umbria e la società Colle di Todi. Ora, anche volendo trascurare il dato formale per il quale una simile censura avrebbe dovuto essere posta come violazione di legge e, specificamente, come violazione delle regole in tema di ermeneutica contrattuale, resta il fatto decisivo che, ove anche fosse esatto il rilievo per il quale alla società appaltatrice era stata commissionata la costruzione di una nuova opera, ciò comunque non si tradurrebbe, di per sé, nell’automatico venire meno dell’obbligo di custodia; in conformità a quanto meglio si dirà nell’esame degli altri motivi.
2. Conviene esaminare congiuntamente, per ragioni di economia processuale, il secondo ed il quarto motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 del codice civile.
Osserva il ricorrente che la decisione della Corte d’appello si fonda sulla convinzione che il potere-dovere di K i custodia esistente a carico dell’ente pubblico sia una conseguenza del diritto di proprietà; nel caso specifico, invece, il Comune di Todi non poteva continuare ad esercitare l’attività di custodia, trattandosi di lavori pubblici di notevole entità in relazione ai quali la custodia della cosa era affidata alla società appaltatrice.
2.2. Col quarto motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 cod. civ., in riferimento alle leggi speciali per il risanamento del colle di Todi.
Osserva in proposito il ricorrente – richiamando la sentenza 6 luglio 2006, n. 15383, di questa Corte – che la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare l’esistenza di una relazione qualificata tra i beni in questione ed altri soggetti, nella specie la Regione Umbria e la società appaltatrice dei lavori. Il Consiglio comunale di Todi, con delibera del 2 marzo 1990, aveva dato atto della propria impossibilità di esercitare un’adeguata custodia dei beni assoggettati ai lavori di rinnovamento urbano; e ciò farebbe venire meno i poteri di custodia e vigilanza, perché per fattori oggettivi la cosa era stata sottratta al dominio del Comune stesso.
2.3. Entrambi i motivi, i quali pongono all’esame della Corte il problema dei limiti della responsabilità a titolo di custodia, sono privi di fondamento.
La giurisprudenza di questa Corte ha anche di recente ribadito, in conformità ad un pacifico orientamento, che la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, prevista dall’art. 2051 cod. civ., ha carattere oggettivo, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell’attore del verificarsi dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con il bene in custodia: una volta provate queste circostanze, il custode, per escludere la propria responsabilità, ha l’onere di provare il caso fortuito, ossia l’esistenza di un fattore estraneo che, per il suo carattere di imprevedibilità e di eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso causale (così, più di recente, le sentenze 19 maggio 2011, n. 11016, e 5 febbraio 2013, n. 2660). D’altra parte, il rapporto di custodia è stato identificato come una relazione di fatto tra il soggetto e la cosa che sia tale da consentirne il “potere di governo”, ossia la possibilità di esercitare un controllo tale da eliminare le situazioni di pericolo insorte e da escludere i terzi dal contatto con la cosa (sentenza 12 luglio 2006, n. 15779), ove essa sia fonte di pericolo.
Nonostante il carattere oggettivo di tale responsabilità, la quale è esclusa soltanto dalla prova del caso fortuito, la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto che il comportamento colposo del danneggiato può – secondo un ordine crescente di gravità – atteggiarsi come concorso causale colposo, valutabile ai sensi dell’art. 1227, primo comma, cod. civ., ovvero addirittura giungere ad escludere del tutto la responsabilità del custode (v. sentenza n. 15779 del 2006 cit.)- Si è detto, infatti, che il dovere di segnalare il pericolo, che costituisce normale obbligo gravante sul custode, si arresta in presenza di un uso improprio, anomalo e del tutto imprevedibile della cosa, la cui pericolosità sia talmente evidente da integrare essa stessa gli estremi del caso fortuito (v. la sentenza 19 febbraio 2008, n. 4279, nonché la sentenza 4 dicembre 2012, n. 21727).
In relazione al problema specifico dell’obbligo di custodia connesso all’esistenza di un cantiere stradale, questa Corte ha affermato che, qualora l’area di cantiere risulti completamente enucleata, delimitata ed affidata all’esclusiva custodia dell’appaltatore, con conseguente assoluto divieto su di essa del traffico veicolare e pedonale, dei danni subiti all’interno di questa area risponde esclusivamente l’appaltatore, che ne è l’unico custode. Allorquando, invece, l’area su cui vengono eseguiti i lavori e insiste il cantiere risulti ancora adibita al traffico e, quindi, utilizzata a fini di circolazione, questa situazione dimostra la conservazione della custodia da parte dell’ente titolare della strada, sia pure insieme all’appaltatore, sicché la responsabilità ai sensi dell’art. 2051 cod. civ. sussiste sia a carico dell’appaltatore che dell’ente (sentenze 6 luglio 2006, n. 15383, 16 maggio 2008, n. 12425, e 23 luglio 2012, n. 12811).
2.4. Alle citate pronunce si intende dare continuità.
Nella specie, è indubbio che l’area interessata dai lavori stradali non era interdetta al pubblico, tanto che la C. ha patito l’incidente per cui è causa uscendo dalla propria abitazione. Correttamente, pertanto, la Corte d’appello è pervenuta alla conclusione della persistenza dell’obbligo di custodia a carico anche del Comune di Todi, in solido con la società appaltatrice, non essendo stata fornita alcuna prova dell’esistenza di ragioni oggettive che avrebbero dovuto escludere la responsabilità del Comune; né va trascurato che è stato riconosciuto un concorso di colpa anche a carico della C. .
Il quadro non muta in base alle leggi speciali – citate nel quarto motivo di ricorso – relative al risanamento della rupe di Orvieto e del colle di Todi; esse, infatti, non prevedono alcun esonero di responsabilità dei Comuni interessati, ma soltanto un obbligo di attivazione da parte della Regione Umbria per l’esecuzione dei progetti necessari al fine di evitare i movimenti franosi e di sollecitare il pieno recupero delle due zone, di particolare rilievo artistico ed ambientale (si vedano, ad esempio, l’art. 2 della legge 25 maggio 1978, n. 230, e l’art. 2 della legge 12 giugno 1984, n. 227).
3.1. Col terzo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 54 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.
Rileva il ricorrente, in proposito, che sarebbe errata l’affermazione della Corte di merito secondo cui il Comune di Todi conservava intatti i propri poteri di custodia, ivi compresa la possibilità di emanare provvedimenti di urgenza in base al citato art. 54. Quest’ultimo, infatti, è entrato in vigore dopo i fatti di causa, che risalgono al 1992, per cui non poteva certamente essere applicato al caso in esame.
3.2. Il motivo non è fondato.
La previsione dell’art. 54, comma 4, sopra citato disposizione che riconosce al sindaco il potere di adottare provvedimenti contingibili e urgenti, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, a tutela dell’incolumità pubblica e della sicurezza urbana – non è che la sostanziale trasposizione dell’art. 38, comma 2, della legge 8 giugno 1990, n. 142, vigente all’epoca dei fatti di causa (norma la quale, a sua volta, affonda le proprie radici in altre assai più risalenti nel tempo); ma comunque, anche a prescindere da tale dato formale, resta che il richiamo a detta disposizione non è che una argomentazione di contorno, nell’economia della decisione impugnata, al fine di dimostrare la persistenza di poteri organizzativi e di custodia a carico del Comune di Todi.
4.1. Col quinto motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 cod. civ., oltre ad errata ed insufficiente valutazione del fatto del danneggiato ai fini della sussistenza del nesso di causalità e del caso fortuito.
Rileva il Comune ricorrente che dall’istruttoria svolta era emerso che la danneggiata C. conosceva molto bene lo stato dei luoghi ed era pienamente in grado di notare l’esistenza di un dislivello di circa 60 centimetri, sicché l’evento dannoso era da ricondurre a responsabilità esclusiva della stessa vittima e, eventualmente, a concorrente responsabilità della società Colle di Todi appaltatrice dei lavori, poiché alla stessa andava addebitata la mancata posa in opera delle necessarie passerelle.
4.2. Anche questo motivo non è fondato.
In relazione al punto della sussistenza di una responsabilità esclusiva della società appaltatrice, è sufficiente richiamare quanto si è detto a proposito del secondo e del quarto motivo.
Per quanto riguarda, invece, il riparto delle responsabilità, si osserva che la Corte d’appello ha motivato, con pienezza di argomenti ed in modo ineccepibile, ricostruendo la dinamica dell’incidente e lasciando chiaramente intuire che l’attribuzione alla C. di un concorso di colpa nella misura del 15 per cento poteva, semmai, apparire troppo severo nei confronti della medesima. Il che è del tutto condivisibile se si considera che, nel caso in esame, la C. si era trovata, uscendo dalla propria abitazione, a dover sopportare un salto di circa 60 centimetri, senza l’ausilio di alcuna passerella.
Il motivo si risolve, pertanto, nel tentativo di sollecitare questa Corte ad un nuovo e non consentito esame delle prove esistenti, al fine di conseguire un risultato processuale più favorevole.
5. Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale esito segue la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in conformità ai soli parametri introdotti dal decreto ministeriale 20 luglio 2012, n. 140, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 4.500, di cui Euro 200 per spese, oltre accessori di legge.

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